A seguito del Convegno ICC Italia “L’impatto della Brexit per imprese e operatori” del 1° febbraio scorso, e alla luce delle ultime votazioni del Parlamento di Londra a favore del “no deal”, ICC Italia ha chiesto ai propri esperti un commento a caldo sui nuovi scenari che potranno aprirsi.
Si avvicina la Brexit senza accordo con l’Unione europea, dopo che il Parlamento di Londra ha bocciato l’intesa faticosamente raggiunta con l’Ue e respinto l’idea di un secondo referendum. Dal punto di vista doganale si tratta di un cambiamento di vasta portata. Le importazioni dell’Unione europea dal Regno Unito, che attualmente rappresentano il 44% dell’export britannico, saranno soggette a procedure e dazi, ricadendo sotto le regole tariffarie del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, come i prodotti cinesi o statunitensi. In particolare, il trattamento previsto per i “paesi terzi” rispetto all’Unione prevede anche alcune significative tariffe, dal 4,6% per i prodotti chimici fino al 35% per i latticini.
Il ritorno delle frontiere preoccupa consumatori e imprese inglesi. Il piano doganale di emergenza predisposto da Londra in caso di no-deal con l’Unione europea – che non è stato preventivamente sottoposto ai rappresentanti dell’industria e dei sindacati britannici creando immediate e forti reazioni – prevede l’applicazione, dal 29 marzo 2019 e fino al 29 marzo 2020, di un nuovo regime doganale, in cui l’82% delle importazioni europee sarà esonerata dai dazi, che invece saranno imposti sulle categorie più sensibili: il settore automotive e quello dei prodotti agroalimentari, come manzo, agnello, pollame e latticini. Alle importazioni di automobili sarà invece applicato un dazio del 10%.
Avv. Sara Armella (Studio Armella e Associati), Delegato italiano nella ICC Commission on Customs & Trade facilitation e Coordinatore della Commissione Dogane & Trade Facilitation di ICC Italia.
Gli ultimi sviluppi di Brexit rendono concreto il rischio di un’uscita disordinata del Regno Unito dall’Unione europea. Senza i necessari aggiustamenti e l’approvazione di disposizioni quantomeno transitorie, tuttavia, imprese, operatori e lavoratori corrono il rischio di veder mutare significativamente il quadro di riferimento delle loro attività e investimenti, anche già in essere. Dal punto di vista tributario, in particolare, il rischio è che gli investitori inglesi si ritrovino a pagare ritenute alla fonte sui flussi di reddito provenienti dall’Italia più alti di quelli oggi applicabili, in particolare in forza delle direttive comunitarie che regolano la tassazione di dividendi, interessi e royalties. Eventuali riorganizzazioni dei gruppi societari d’Oltremanica per rimediare a questi svantaggi dovranno comunque confrontarsi con le disposizioni antielusive di fonte nazionale e i principi ancora di recente ribaditi dalla stessa Corte di Giustizia UE (v. le sentenze “danesi” del 26 febbraio scorso), in particolare per il contrasto alle cd. conduit companies. E sempre in materia di riorganizzazioni, occorre anche considerare che, quantomeno in Italia, verrebbero meno, nei rapporti con il Regno Unito, le disposizioni di favore in materia di fusioni, scissioni e conferimenti, così come di exit taxation. Anche i gruppi italiani con sedi operative nel Regno Unito, del resto, non potranno dirsi immuni dal repentino cambiamento del contesto normativo: basti pensare al fatto che con l’uscita dall’UE non si potrà più godere della libertà di stabilimento, ma solo di quella di circolazione dei capitali, che è come noto garantita anche ai Paesi extra-UE. Per contro, la stessa UE rischia di ritrovarsi con un vicino di casa, già di per sé competitivo dal punto di vista dell’attrazione di capitali, d’un tratto libero da impegni, anche dal punto di vista degli aiuti di Stato, la cui disciplina è stata in questi anni l’unico strumento di effettivo contrasto a regimi particolarmente aggressivi messi in atto da alcuni Paesi membri nell’ambito di una concorrenza fiscale volta ad attrarre le attività delle imprese multinazionali.
Dal punto di vista tecnico doganale, la Gran Bretagna sarà un Paese Terzo, un paese associato o un paese con accordo di Unione doganale (come la Turchia). Le procedure non potranno essere diverse, ma cambieranno significativamente i volumi ed i numeri di documenti, creando addirittura problemi di gestione dei sistemi informatici e soprattutto di circolazione e congestione dei presidi ai confini portuali (si pensi a Dover) ed aeroportuali.
Si tratta di un divorzio tra due litiganti irresponsabili e superficiali, che stanno mostrando i muscoli trascurando soluzioni semplici, quali il mutuo riconoscimento di certificazioni (sanitarie, licenze, Aeo ed altre) oppure il ricorso ad una transizione graduale di uscita, procedimento inverso a quello già testato in passato per l’entrata di alcuni Paesi.
Ritengo sia sempre più probabile un rinvio a giugno, se non addirittura al 2020.
A partire dal giorno del ritiro del Regno Unito dall’UE, i marchi UE registrati conformemente al diritto dell’Unione Europea (in base al Reg. (UE) 2017/1001 sul marchio UE) e i disegni e modelli comunitari registrati ai sensi del Reg. (CE) n. 6/2002, non saranno più protetti nel Regno Unito in base al diritto dell’UE.
In prospettiva di un “no deal”, la Brexit limiterà quindi l’ambito di protezione territoriale del marchio dell’UE e dei design UE al territorio dei restanti 27 Stati membri dell’UE.
Attualmente il diritto dell’UE non offre alcuna base giuridica che consentirebbe una “trasformazione parziale” di un marchio UE in un marchio del Regno Unito, o di un disegno e modello UE in un design protetto nel Regno Unito; né consente che tale trasformazione sia effettuata retroattivamente (vale a dire dalla data di ritiro). La continuità della protezione nel Regno Unito dei marchi UE e dei disegni o modelli comunitari registrati (o depositati) prima della data di ritiro dipenderà quindi esclusivamente dalle condizioni stabilite dalla legge del Regno Unito.
Inoltre, dopo il giorno di ritiro, qualsiasi registrazione di marchio internazionale che includa l’UE come paese designato sarà valida solo nei restanti 27 Stati membri dell’UE e non avrà più effetto nel Regno Unito ai sensi del diritto dell’UE. La continuità della protezione nel Regno Unito dei marchi internazionali registrati (o depositati) prima della data di ritiro dipenderà quindi esclusivamente dalle condizioni stabilite dalla legge del Regno Unito.
I rappresentanti del Regno Unito che non hanno un domicilio in uno Stato Membro UE perderanno la loro capacità di agire dinnanzi all’EUIPO a seguito di un “no deal Brexit” e saranno:
(i) automaticamente rimossi da tutti i file nei procedimenti relativi a EUTM e RCD;
(ii) (ii) cancellati dal database dell’EUIPO di rappresentanti (e, se del caso, dall’elenco dei rappresentanti professionali dell’Ufficio);
(iii) (iii) non essere in grado di inviare posta in relazione a un file tramite “UserArea” dell’EUIPO.
La scorsa settimana, il Parlamento britannico ha: (i) bocciato il nuovo accordo proposto da Theresa May sul recesso del Regno Unito dall’UE; (ii) votato contro un’uscita del Regno Unito dall’UE senza accordo (c.d. hard Brexit); (iii) approvato la richiesta di prorogare la data di recesso dall’UE. Il prossimo 20 marzo, quindi, il Regno Unito dovrà decidere se chiedere una breve proroga di tale data (fino al 30 giugno 2019) oppure più lunga, dopodiché la “palla” passerà all’UE. A prescindere dagli imprevedibili sviluppi futuri, penso che la Brexit non produrrà effetti significativi sull’arbitrato commerciale. Invece, i trattati bilaterali di investimento (“BIT”) intraeuropei di cui sia parte il Regno Unito diventeranno BIT extraeuropei dopo la Brexit e non saranno più soggetti al dictum della sentenza Achmea emessa dalla Corte di giustizia il 6 marzo 2018; pertanto, tali BIT saranno vincolanti anche nei rapporti fra il Regno Unito e gli Stati europei.