Non vi erano grandi aspettative sull’esito della conferenza ministeriale di Buenos Aires tenutasi dal 10 al 13 dicembre, dove in effetti i 164 paesi membri non sono riusciti neppure a concordare il testo di una Dichiarazione finale per quanto generica.
Si era già capito alla pre-conferenza di Marrakesh dell’ottobre scorso tra i principali paesi membri che sarebbe stato difficile se non impossibile concludere i negoziati sui tavoli rimasti aperti dalla ministeriale precedente di Nairobi del 2015: i sussidi alla pesca, che portano all’esaurimento delle risorse ittiche del pianeta; i sostegni interni all’agricoltura e l’accesso al mercato, con il connesso problema del regime dello stoccaggio per ragioni di sicurezza alimentare; il completamento di qualcuno dei temi del Round di Doha di interesse per i paesi in via di sviluppo, o anzi – secondo l’orientamento dei paesi industrializzati per cui di fatto il Doha Development Round è defunto – l’apertura di nuovi tavoli negoziali su temi più attuali.
Il direttore generale Azevedo e la commissaria UE Maelstrom si sono lamentati per la scarsa flessibilità di molti paesi, col risultato che modeste decisioni si sono potute raggiungere solo sulla continuazione di negoziati per mantenere aperto il commercio elettronico (nel parallelo foro imprenditoriale Jack Ma di Alibaba si è espresso nel senso che nessuna disciplina sia necessaria o auspicabile) e per cercare di concludere sulla pesca per la prossima ministeriale del 2019.
Ci si deve chiedere quali siano le prospettive future della WTO come perno di regole condivise per un commercio multilaterale non discriminatorio e quale foro idoneo ad affrontare nuove tematiche. Regole che bene o male funzionano, che disciplinano il 97% degli scambi mondiali tra 164 paesi. Di poche settimane fa è il periodico rapporto delle principali organizzazioni economiche che riscontra un calo delle misure restrittive (l’onda lunga del protezionismo post-crisi finanziaria) e una certa ripresa degli scambi, pur in presenza di un certo incremento dei procedimenti anti-dumping da parte di molti paesi.
A Buenos Aires l’adesione al sistema, incluso il sistema di soluzione delle controversie che lo garantisce, è stato largamente ribadito sia nel foro imprenditoriale, che da parte di attori quali così l’Unione Europea, la Cina e, importante novità, da parte dei paesi latino-americani capitanati dal presidente argentino Macri. Questi della riunione a Buenos Aires (prossima sede anche del G-20 del 2018) ha voluto fare il simbolo della ritrovata adesione del suo paese ai principi del libero scambio per un rilancio della sua economia.
Il regionalismo economico, promosso ormai tra l’altro attivamente dall’Unione europea – a Buenos Aires sono ripartiti su basi più promettenti che nel passato i negoziati col Mercosur, auspice di nuovo l’Argentina – appare più come un complemento al WTO viste le difficoltà negoziali nel suo ambito, che quale alternativa al suo sistema. Tanto più che anche gli accordi “à la carte”, i cosiddetti plurilaterali, sganciati dal principio del consenso e della universalità, stentano a decollare, per esempio in materia di servizi, nonostante recenti esempi positivi come il ITA (International Technology Agreement) e il EPA (Environmental Goods Agreement) che hanno portato all’abolizione multilaterale dei dazi in questi due settori.
Vi era a Buenos Aires un convitato di pietra: l’amministrazione Trump, con la sua politica di “disengagement” dal multilateralismo e insieme di attacco al regionalismo (NAFTA, KORUS). Ricordiamo che già all’ultimo G-20 in Germania si dovette ricorrere ad una inedita dichiarazione a 19 sui temi del commercio internazionale lasciando fuori gli USA.
Le posizioni espresse da Robert Lighthizer per gli USA alla Ministeriale sono state meno “virulente” di quanto si temeva. Ha anche ottenuto una dichiarazione comune con UE e Giappone contro i sussidi distorsivi che provocano sovrapproduzioni, chiaramente rivolta alla Cina. Egli si è comunque concentrato solo sulle critiche all’attuale sistema, da un asserito eccessivo focus sulle controversie (dove certi Stati riuscirebbero ad ottenere quanto gli USA non avevano concesso in sede di accordi) rispetto ai negoziati; all’invocazione, secondo gli Stati Uniti abusiva, di esenzione dalle regole da parte di paesi che ormai non hanno più titolo per pretendersi “in via di sviluppo”. Egli si è ben guardato però durante la sua rapida visita dal proporre iniziative o formulare proposte.
Sopratutto gli USA continuano a far planare una radicale incertezza sul meccanismo di soluzione delle controversie, perla e perno di tutto il WTO, bloccando da mesi il consenso al processo di nomina dei giudici del suo Appellate Body. Su sette membri, tre posti sono ormai vacanti. A parte il rallentamento delle procedure, se la situazione dovesse proseguire, nel giro di un anno o poco più esso cesserebbe di operare per mancanza di giudici.
Gli Stati Uniti si dichiarano insoddisfatti del suo funzionamento, lamentando un non meglio precisato “attivismo giudiziario” dell’AB, nonostante la serie di vittorie riportate di recente contro Cina, India, Messico, Indonesia. Allo stesso tempo non precisano quali riforme chiedono. Nei fatti con questa posizione, evocata a Buenos Aires solo nei corridoi, tengono in ostaggio l’intero sistema finché o si renderanno conto di danneggiarsi da se stessi (considerato che le imprese americane potrebbero essere le prime vittime di discriminazioni in accordi regionali da cui gli USA si tengono fuori, per esempio il TPP a 11 senza di loro) o qualche altro protagonista di peso non si deciderà di “restituire il colpo”.
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Giorgio Sacerdoti e’ professore emerito di diritto internazionale all’Università Bocconi, esperto di diritto del commercio internazionale, già membro per l’Unione Europea dell’Organo di Appello (Appellate Body) della Organizzazione Mondiale del Commercio. Ha partecipato alla Conferenza Ministeriale della stessa a Buenos Aires, invitato in qualità di esperto.